In riferimento a quanto reso pubblico in questi giorni dagli organi di stampa sull’indagine riguardante don Andrea Contin, la Diocesi di Padova chiarisce quanto segue:
In generale, per qualsiasi caso di segnalazioni che giungono al vescovo o ai suoi diretti collaboratori, riguardanti comportamenti di sacerdoti in contrasto con la morale cristiana, la disciplina ecclesiastica e l’attività ministeriale, la prassi ecclesiale prevede una verifica dell’attendibilità e della fondatezza delle informazioni, attraverso un procedimento canonico, che nelle fase preliminari è coperto da totale riservatezza, nel rispetto di tutte le persone coinvolte, eventuali vittime comprese.
Nello specifico del presbitero don Andrea Contin l’autorità diocesana, a seguito delle segnalazioni giunte nei mesi scorsi, ha avviato quella che in termini tecnici si chiama “indagine previa”, come previsto dai canoni 1717-1718 del diritto canonico. Dopo questa fase, che nel caso specifico, non è ancora conclusa, spetta al vescovo diocesano decidere se avviare o no un processo canonico che stabilisca eventuali responsabilità dell’imputato.
Qualora intervenga la magistratura ordinaria, solitamente l’indagine canonica rimane in attesa degli sviluppi che si hanno in quell’ambito, pur mantenendo la propria autonomia e continuando il proprio percorso.
Rispetto a quanto viene riportato dalla stampa locale si precisa inoltre che:
– al presbitero è stato chiesto di lasciare la parrocchia per permettere il pieno svolgimento delle indagini, ma ciò non equivale a un giudizio di condanna;
– da parte dell’autorità ecclesiastica non è stato consegnato alcun fascicolo alla magistratura ordinaria sia perché un procedimento formale non è ancora avviato sia perché gli accordi tra Stato e Chiesa (Patti Lateranensi) prevedono la trasmissione di eventuale documentazione agli organismi inquirenti solo ed esclusivamente previo consenso delle persone coinvolte;
– i fatti, oggetto delle indagini, sono molto gravi e ciò addolora il vescovo e la comunità cristiana. È necessario che sia fatta verità, ma è doveroso rispettare il diritto alla buona fama e alla privacy, non solo del sacerdote, la cui colpevolezza deve essere provata, ma anche delle donne che, convinte delle proprie ragioni, hanno avuto il coraggio di segnalare ogni cosa all’autorità competente, sia in ambito civile che ecclesiale.
CS 276/2016
Padova, 29 dicembre 2016